Come il linguaggio può influenzare la percezione visiva

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 30 maggio 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Il titolo può facilmente far pensare a quelle prove sperimentali in cui i suggerimenti verbali dei ricercatori inducono dei volontari davanti allo schermo di un computer a focalizzare l’attenzione su un particolare di un oggetto o di una scena, come quando si dice: “Guarda la sagoma dei bottoni di quella giacca”, oppure: “Osserva questo video senz’audio e dalle espressioni dei protagonisti deduci se litigano o scherzano”. In questo caso si tratta di un’influenza del messaggio verbale sull’uso che si fa, dirigendo lo sguardo e l’attenzione, della percezione visiva a fini cognitivi. Invece, qui si vuole affrontare una questione diversa, più elementare o basic per struttura, e attinente all’influenza sull’elaborazione percettiva da parte di un messaggio codificato. In altre parole, la questione è se e come un’informazione codificata possa modificare dei parametri del processo che trasforma i segnali visivi della retina in rappresentazioni mentali.

Eduardo Navarrete e Francesca Peressotti dell’Università di Padova, lavorando con Michele Miozzo della Columbia University, hanno affrontato questo problema, analizzando la possibilità che un linguaggio, ossia un codice comunicativo umano, modelli la nostra conoscenza degli oggetti visivi. I tre ricercatori hanno impiegato il linguaggio dei segni dei sordomuti, un codice comunicativo comunemente ritenuto in grado di veicolare e trasmettere senso con un’efficacia sostanziale paragonabile – come affermano gli autori dello studio – a quella di “ogni altro linguaggio naturale”, e ne hanno rilevato gli effetti sulla formazione delle rappresentazioni cerebrali delle immagini di oggetti mediante lo studio dei potenziali evocati relati ad evento (ERP).

(Navarrete E., et al., Language Can Shape the Perception of Oriented Objects. Scientific Reports 10, 8409, 21 May 2020 - Epub ahead of print doi: 10.1038/s41598-020-65455-6, 2020).

La provenienza degli autori è la seguente: Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova, Padova (Italia); Columbia University, New York, NY (USA).

L’insegnamento di un linguaggio di segni rappresenta una risposta pragmatica all’esigenza di comunicare da parte di persone prive dell’abilità vocale necessaria, ma l’efficacia dell’insegnamento e poi dell’uso di un codice sostanzialmente arbitrario di gesti e movimenti, risiede in una specifica predisposizione del nostro cervello. Gli studiosi dell’evoluzione della cognizione sociale umana delineano un insieme di comportamenti trasmessi in epoca primordiale dai genitori ai figli, e chiamano questi apprendimenti “cultura episodica”, considerandoli espressione di uno stadio evolutivo che accomuna ominidi protoumani e primati antropomorfi. Una prima importante transizione si è avuta con lo sviluppo di una “cultura mimica”, in cui le espressioni emotive del volto combinate con gesti e vocalizzi, come già suggerito da Charles Darwin, hanno realizzato uno schema generale di adattamento sociale. L’importanza comunicativa delle forme della cultura mimica ancora ai giorni nostri è bene documentata dallo studio più che quarantennale di Ekman, focalizzato su espressioni del viso con significato transculturale e valore praticamente universale.

Pur rimanendo come mezzo ancillare di trasmissione di stati affettivi, emozioni, sentimenti, richieste e ordini, la rappresentazione mimica è stata sostituita in massima parte dalla prima invenzione semiotica di tipo arcaico, costituita dal gesto, che prelude alla transizione verso la cultura simbolica.

La pratica standardizzazione delle prestazioni mimiche in gesti fissi e condivisi rappresentò nel corso dell’evoluzione il primo strumento di invenzione semiotica[1], che si ritiene abbia preceduto l’associazione di concetti a forme stabili e convenzionali di suoni vocali, almeno come fase cronologica collettiva. David McNeill è stato tra i primi a dimostrare la stretta relazione esistente tra i gesti e la parola, ipotizzando l’appartenenza di simboli gestuali e verbali al medesimo livello di elaborazione neurocognitiva[2]. Nei suoi interessanti studi, McNeill distingueva i gesti simbolici standardizzati, equiparandoli a parole o locuzioni, da manifestazioni mimiche stereotipate a scopo comunicativo, indipendenti dalle lingue verbali e verosimilmente più antichi: gli emblemi. Da questo concetto viene la definizione corrente di gesti emblematici. McNeill proponeva due efficaci esempi di questa categoria: indice puntato su una tempia e fatto leggermente ruotare nei due sensi per intendere “questo tizio è matto”; braccio teso con mano chiusa e pollice rivolto in su per indicare assenso e approvazione. Oggi si ritiene che tali gesti abbiano avuto inizio come varianti di espressioni emozionali, poi evoluti creativamente e affermati attraverso il vaglio sociale.

Colpisce che, come noi Occidentali, i Boscimani del Kalahari, per antichissima tradizione, per zittire qualcuno portino l’indice alle labbra, facendo: “Ssst!”. Tra i gesti comuni a molte culture ed eseguiti con lievi varianti vi sono quelli già studiati da Eibl-Ebesfeldt: scuotere la testa per indicare perplessità, scrollare le spalle quando non si sa cosa dire o fare, storcere il muso per disapprovare, oscillare la mano per salutare da lontano, stringere la mano per salutare chi si incontra e fare un inchino per comunicare reverenza[3]. Tuttavia, a differenza di alcune espressioni del viso descritte da Darwin e studiate da Ekman e tanti altri, i gesti emblematici presentano in prevalenza una caratterizzazione culturale[4] e appaiono in genere come il prodotto di un’arbitrarietà creativa, che li colloca a metà fra le espressioni spontanee e i simboli dei codici linguistici.

L’uso di simboli gestuali per comunicare richiede, nel nostro cervello, l’intervento di reti e sistemi neuronici cognitivi e specializzati nel linguaggio verbale, come si è appreso anche dalla straordinaria esperienza di insegnamento dell’alfabeto dei segni americano a Washoe – uno scimpanzé che ha poi trasmesso “culturalmente” parte dei segni appresi – e della conoscenza semantica e alfabetica delle parole alla scimmia Sarah. Le due scimmie, dopo un faticoso ma efficace training che consentì loro di acquisire una serie di abilità – per certi versi sorprendenti – non furono mai in grado di andare oltre un livello associativo molto elementare e fare il salto di qualità sperato dai loro addestratori, perché limitate dalla mancanza dei nostri sostrati neurofunzionali per l’astrazione e la comunicazione verbale. In sostanza, l’insegnamento della lingua dei segni alle persone prive dell’abilità di corretta elaborazione ed esecuzione degli schemi fonoarticolatori necessari all’esecuzione della lingua verbale risulta efficace grazie a processi cognitivo-comunicativi squisitamente umani. Per questa ragione, i risultati dello studio condotto da Eduardo Navarrete e colleghi impiegando il linguaggio dei segni possono estendersi alla comunicazione mediata da altri sistemi simbolici.

A differenza degli Stati Uniti, dove l’American Sign Language (ASL) si apprende tradizionalmente alla scuola primaria, in Italia a lungo non è esistito un codice di segni ufficialmente prescelto e insegnato a scuola, pertanto è rimasta per molti anni problematica l’adozione di un sistema gestuale da parte di ragazzi affetti da deficit neurosensoriali tanto gravi da precludere loro lo sviluppo della capacità di parlare. La decisione di insegnare un codice di gesti comportava, infatti, oltre alla scelta del linguaggio, in assenza di uno standard nazionale condiviso, anche l’obbligo di sottoporre a un corso di istruzione almeno un familiare della persona muta, perché questa potesse avere almeno un interlocutore. Le cose sono migliorate con l’introduzione della Lingua dei Segni Italiana (LIS) che, tuttavia, non è stata ancora ufficialmente riconosciuta[5].

La dignità linguistica e il valore cognitivo dei sistemi di rappresentazione gestuale delle parole, definiti semìe sostitutive da Virginia Volterra, sono stati da tempo dimostrati e gli studi sul loro impiego sono ormai parte integrante della ricerca sull’uso della funzione simbolica da parte del cervello umano.

La visione di un oggetto costituisce la fonte naturale primaria di conoscenza sulle sue caratteristiche morfologiche, quali la sua forma e il suo orientamento; sappiamo che un’informazione acquisita attraverso un codice di comunicazione sullo stesso oggetto può integrare la nostra conoscenza, ma finora non è stato provato che possa modificare il processo di elaborazione della percezione stessa. Per verificare questa possibilità, gli autori dello studio hanno impiegato la risorsa offerta dai segni di incidere direttamente sull’orientamento di un oggetto rappresentato. Per la realizzazione della sperimentazione, si sono avvalsi della collaborazione di Elena Pretato per la preparazione degli stimoli visivi e di Arianna Caccaro per il reclutamento dei partecipanti non udenti.

Pochi segni rappresentano oggetti in uno specifico orientamento. Nelle prove sperimentali, i volontari che impiegavano il linguaggio dei segni riconoscevano gli oggetti più rapidamente quando erano orientati come nel codice gestuale, e questa corrispondenza nell’orientamento evocava specifiche risposte cerebrali, come rilevato mediante i potenziali evocati ERP.

Le analisi condotte sui rilievi effettuati durante le prove sperimentali hanno rivelato che la responsività degli esecutori di segni all’orientamento dell’oggetto derivava da cambiamenti nella rappresentazione visiva dell’oggetto indotta dai segni.

Un altro elemento emerso dalle prove con chiara evidenza è che il linguaggio facilita la discriminazione fra oggetti appartenenti alla stessa classe morfologica, come ad esempio fra due diversi tipi di automobili. Questo effetto non era mai stato riportato in precedenza, in nessuno studio condotto mettendo alla prova le capacità di influenza delle lingue verbali. Un dato, questo, che induce Navarrete e colleghi a suggerire di proseguire lo studio dell’influenza sull’elaborazione visiva dell’oggetto da parte dei linguaggi di comunicazione, nella loro caratterizzazione unicamente umana, ricorrendo a volontari in grado di usare semìe sostitutive quali ASL, LIS e simili.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond

BM&L-30 maggio 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. Merlin Donald, L’evoluzione della mente, p. 260, Garzanti 1996.

[2] Cfr. Merlin Donald, op. cit., ibidem.

[3] Cfr. Eibl-Eibesfeldt I., Human Ethology, Aldine de Gruyter, New York 1989.

[4] Tradizionalmente, il Manuale di Psicologia di Gardner Murphy (Gardner Murphy, An Introduction to Psychology, Harper & Brothers, New York 1951; ed. it. Sommario di Psicologia, Boringhieri, Torino 1957) dedicava un ampio spazio alla gestualità legata alla cultura, ponendo a confronto gesti emblematici dell’Italiano “tradizionale” (in realtà, immigrati meridionali di tradizione contadina) con quelli dell’Ebreo “assimilato” e dell’Americano medio.

[5] Nell’ottobre del 2017 il Disegno di Legge 302 sui diritti delle persone sorde, disabili uditive e sordocieche fu approvato dal Senato della Repubblica, ma fino ad oggi non si sono avuti progressi per il riconoscimento della LIS.